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26 ottobre 2009 1 26 /10 /ottobre /2009 15:19
L'URBANISTICA NELLA SUA EVOLUZIONE
L’URBANISTICA NELLA SUA EVOLUZIONE STORICA

1. LE ORIGINI DELL’URBANISTICA MODERNA

2. L’EVOLUZIONE NORMATIVA DELL’URBANISTICA:CENNI

Sino agli inizi del XX secolo, le norme legislative propriamente urbanistiche erano scarse e frammentarie in quanto previste esclusivamente a livello locale. I Comuni, attraverso l’esercizio del proprio potere regolamentare, hanno potuto dettare normative e creare strumenti che anticipano per molti versi quelli della moderna legislazione urbanistica: disciplina della licenza edilizia, del silenzio, dei controlli, previsione di piani urbanistici limitati a singole parti del territorio. Le normative urbanistiche esistono da tempi molto remoti e, almeno sino a una certa epoca, erano assolutamente dominanti quelle comunali (di carattere regolamentare). Più tardi, con l’avvento dello Stato di diritto e con l’importanza crescente attribuita ai profili urbanistici, diventarono prevalenti le norme statali, costitutive di una base legislativa al potere pianificatorio e regolamentare del Comune, che continuava a vigere in tutte le sue espressioni peculiari. Il primo testo legislativo che merita di essere menzionato è la legge 25 giugno 1865, n. 2359 sulla espropriazione per p.u. che dedica alcune (scarne) disposizioni al piano regolatore comunale: esso veniva considerato come strumento straordinario e facoltativo, al quale potevano ricorrere soltanto alcuni comuni (quelli con popolazione superiore a 10.000 abitanti) in presenza di uno specifico interesse pubblico che ne consigliava la formazione.
Il piano non conteneva prescrizioni circa le destinazioni d’uso e le tipologie edilizie delle diverse parti del territorio comunale e non influiva, quindi, direttamente sulle scelte dei privati. Esso tendeva piuttosto ad agevolare le espropriazioni per il miglioramento viario e igienico dei maggiori centri abitati . Per quasi un secolo la legge del ‘65 ha rappresentato l’unico riferimento normativo a carattere generale di disciplina della materia.
Al soprindicato testo si affiancarono varie leggi speciali nate dall’esigenza di risolvere situazioni specifiche di singole città. Tra queste va ricorda la legge di Napoli del 1885 (nata in seguito allo scoppio del colera), che consentiva tra l’altro espropriazioni a tappeto.
Nel periodo fra le due guerre si è sviluppata poi una legislazione speciale che estendeva (in virtù di singole leggi-provvedimento) il piano regolatore ai Comuni più importanti, introducendo le prime disposizioni sulla zonizzazione urbanistica.

3. SEGUE:LA LEGGE URBANISTICA DEL ‘42 E LA LEGISLAZIONE SUCCESSIVA

Dopo quasi un secolo dal provvedimento partenopeo surrichiamato, venne approvata la legge 17 agosto 1942, n. 1150 (c.d. legge urbanistica), che rappresenta ancor oggi il testo fondamentale della materia di che trattasi . Sei anni dopo, entrava in vigore la nuova Carta costituzionale, nella quale invero non è dedicato largo spazio alla questione dell’urbanistica, che, anzi, era vista dai costituenti come materia minore e, in quanto tale, attribuibile alla competenza dei legislatori regionali.
Agli inizi degli anni ‘60, il problema dell’urbanistica si riaffacciò con forza, con conseguente fioritura di varie proposte di riforma (si pensi a quella di istituzione dell’INU, nonché a una serie di disegni di legge presentati da vari ministri dei lavori pubblici succedutisi in quel momento storico).
Nel 1967, in seguito alla frana di Agrigento, venne emanata la legge 6 agosto 1967, n. 765, che apportava alcuni ritocchi a quella del 1942 con l’intento prioritario di accelerare i tempi di formazione dei piani e di limitare l’attività costruttiva, in assenza di strumenti urbanistici fondamentali, attraverso appositi standard.
L’anno successivo, la Corte Costituzionale, con sentenza del 9 maggio n. 55, dichiarò costituzionalmente illegittime talune disposizioni della legge urbanistica del 1942 che consentivano l’imposizione sulla proprietà privata di vincoli di inedificabilità assoluta a tempo indeterminato e senza indennizzo.
In questa sede sarà sufficiente ricordare che, a seguito della citata sentenza, il legislatore - onde superare le censure di incostituzionalità - intervenne anzitutto con delle leggi-tampone (l. n. 1187 del 1968, n. 696 del 1975 e n. 6 del 1977), che trasformarono detti vincoli a “tempo determinato”.
Successivamente, volendo risolvere definitivamente i nodi dell’urbanistica, ritenne di dover intervenire sul regime dei suoli. Ciò che poi in concreto fece con la legge 28 gennaio 1977, n. 10 (c.d. legge Bucalossi), la quale - nell’intento appunto di ripristinare gli anzidetti vincoli a “ tempo indeterminato” - trasformò la licenza in concessione edilizia, mostrando con ciò di voler operare una nuova conformazione della proprietà nel senso della c.d. avocazione dello ius aedificandi alla mano pubblica.
Ma la Corte Costituzionale con una serie di pronunzie degli anni ‘80 (n. 5/1980, n. 92/1982) ha negato espressamente che la legge n. 10 in discussione abbia privato il proprietario dello ius aedificandi e che quest’ultima abbia ripristinato i vincoli di inedificabilità a tempo indeterminato.
Accanto, e in parallelo alla normativa generale di cui si è detto, si diede vita poi a tutta una legislazione settoriale comprensiva anche di numerosi e complessi provvedimenti legislativi inerenti l’abusivismo edilizio.
La legge 28 febbraio 1985 n. 47, ancor più in particolare, ridisegnò il sistema sanzionatorio, dettando norme speciali sul condono e sulla sanatoria delle costruzioni edilizie realizzate a una certa data.
Quest’ultima materia è stata oggetto di altri interventi riformatori rispettivamente contenuti nell’ art. 39 della legge n. 724 del 1994 e nella legge n. 662 del 1996.
È il caso, infine, di sottolineare che la gran parte della normativa edilizia, materia questa concettualmente distinta dall’urbanistica, anche se a essa strettamente correlata, trova oggi organica sistemazione nel c.d. Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia approvato con D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 che contiene “ i principi fondamentali e generali e le disposizioni per la disciplina dell’ attività edilizia” (art. 1 comma 1). Per completare il quadro, bisogna, da ultimo, ricordare che anche le Regioni hanno emanato una copiosa legislazione urbanistica.

4. L’ URBANISTICA E LE COMPETENZE DI STATO, REGIONI ED ENTI LOCALI

Tra le materie elencate nell’art. 117 della Cost. (ante riforma), attribuite alla competenza legislativa delle Regioni, si rinviene l’urbanistica. Si tratta, com’è noto, di una competenza concorrente, che abilita cioè le Regioni a legiferare nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato (c.d. leggi cornice).
Ma, non avendo lo Stato emanato una organica legge-cornice, è accaduto, in questi anni, che i principi fondamentali della materia dovessero desumersi essenzialmente per via induttiva, facendo riferimento, cioè, alternativamente alla legge base del ‘42 (una legge antecedente l’ordinamento regionale), o ai decreti legislativi di trasferimento delle funzioni amministrative regionali (ad esempio il D.P.R. 616/77), ovvero ancora ad altri testi normativi.
Negli ultimi anni, si è assistito tuttavia ad una inversione di tendenza. Le leggi statali più recenti , si sono date, infatti, quasi sempre carico di esplicitare ciò che di una data disciplina rappresenta “principio fondamentale” (costituente limite invalicabile per la legislazione regionale “concorrente “), rendendo in tal modo più certi i rapporti Stato-Regioni.
Per quanto riguarda infine le regioni a statuto speciale (tra cui la Sicilia di cui parleremo di qui a poco) e le due province di Trento e Bolzano, è sufficiente rilevare che la relativa competenza legislativa ha carattere primario. Ciò significa che la legislazione delle medesime può anche porsi in contrasto (senza incorrere in censure di costituzionalità) con i “principi fondamentali” della legislazione statale in materia urbanistica, fatti salvi tuttavia i limiti dell’” interesse nazionale “ e delle “ grandi riforme “.
Tale impianto costituzionale ha dato luogo nel tempo ad una serie di problemi di coordinamento tra legislazione statale e regionale. I quesiti sui quali si è aperto il maggior dibattito hanno riguardato, ed ancora oggi, riguardano, essenzialmente la portata e il significato della materia “ urbanistica” e, ancor più nel dettaglio, i seguenti aspetti:
a) se nel concetto di “ urbanistica” potesse farsi rientrare la c.d. pianificazione di area vasta, vale a dire quella che si estrinseca attraverso i piani territoriali di coordinamento ed equiparati;
b) se l’edilizia economica e popolare possa esser ricondotta nell’alveo della materia urbanistica;
c) se le regioni potessero “liberalizzare” attività il cui esercizio (senza concessione edilizia) è sanzionato dalla legge penale;
d) se la tutela del paesaggio - non menzionata espressamente dall’art. 117 della Cost. (versione originaria) - potesse ascriversi ciononostante alla competenza delle Regioni in quanto species dell’urbanistica.

I primi due quesiti (sub a e sub b) hanno trovato adeguata risposta nel tempo, essendo ormai pacifico che la competenza legislativa regionale in materia di “ urbanistica” si estende sia alla “pianificazione di area vasta” (c.d. pianificazione territoriale), sia all’ edilizia “ economica e popolare” (oggi “ edilizia residenziale pubblica”) .
Anche al quesito sub c) è stata data, ormai, risposta giurisprudenziale univoca, avendo precisato la Corte costituzionale in varie sentenze che il c.d. “ limite della legge penale “, oltre a precludere alle regioni la possibilità di modificare direttamente il regime sanzionatorio previsto dalla legislazione penale, impedisce altresì alle medesime di modificarlo indirettamente, liberalizzando ad es.le attività soggette a concessione edilizia, il cui esercizio, in assenza di quest’ultima, venga configurato dalla legge dello Stato come reato. In tal modo - come si vedrà - è caduta sotto la scure della Corte costituzionale quasi tutta la legislazione regionale in tema di sanatoria edilizia .
L’ultimo quesito (sub d)) relativo alla “ tutela del paesaggio “ merita invece ancora oggi una grande attenzione, posto che tale materia non era, e a tutt’oggi non è, espressamente menzionata nel testo dell’art. 117 Cost., pur presentando non poche refluenze sulla politica del territorio.
La riposta a tale quesito è, ad ogni buon conto, contenuta nella modifica del titolo V della Costituzione, intervenuta con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3. Tale riforma sostituisce il testo originario dell’ art. 117 Cost. ribaltandone la logica: dalla enumerazione delle materie regionali si passa, infatti, al criterio, tipico degli stati federali, della enumerazione delle materie di competenza statale. Il nuovo testo contiene, invero, due elenchi di materie, nelle quali lo Stato esercita la propria potestà: quelle di competenza esclusiva (come ad es. la politica estera, l’immigrazione, i rapporti con le confessioni religiose, la tutela dell’ambiente,ecc.) e quelle di competenza concorrente (come la tutela e la sicurezza del lavoro, istruzione, la formazione professionale, ecc.). Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni - come in passato - la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato.
Su ogni altra materia non rientrante in alcune delle due predette categorie, la potestà legislativa si appunta in via esclusiva - così almeno sembrerebbe - alla Regione.
L’articolo in commento non fa poi alcun riferimento specifico al “ paesaggio “. Ciò, però, non autorizza a ritenere che la materia del “ paesaggio” - tradizionalmente distinta dall’urbanistica - sia passata implicitamente alle Regioni, poiché scorrendo l’elenco delle materie di competenza esclusiva statale, troviamo in esso la “ tutela dell’ambiente, dell’ecosistema” all’interno della quale possiamo collocare anche il paesaggio.
Dato l’ampio dibattito dottrinario e giurisprudenziale sviluppatosi su tale questione, non è possibile in questa sede soffermarsi compiutamente sulle possibili soluzioni, ma si può però certamente affermare con parole di attenta, seppur risalente, dottrina (Predieri), ripresa poi dalla Corte Costituzionale (sent. 196/04) che il “paesaggio” costituisce “forma dell’ambiente”, ossia espressione visibile dell’ecosistema caratterizzato da interventi umani e della natura legati tra loro e in continuo divenire . Se così è, allora tale disciplina rientra nella potestà legislativa statale, posto che la tutela dell’ambiente, o ecosistema, deve essere garantita uniformemente su tutto il territorio nazionale, competenza questa che non può che spettare allo Stato.
La disciplina dell’ ambiente e il paesaggio risiede, pertanto, nella potestà legislativa esclusiva dello Stato.

5. SEGUE: IL GOVERNO DEL TERRITORIO E LIMITI ALLA POTESTA’ LEGISLATIVA REGIONALE CON PARTICOLARE RIFERMENTO AL TESTO UNICO DELL’EDILIZIA.

Ritornando all’elencazione delle materie contenute nel novellato art.117 Cost., dobbiamo rilevare come il nuovo testo non contiene alcun riferimento specifico né all’” urbanistica “ né all’”edilizia”, bensì parla esclusivamente di “governo del territorio” inserendolo nel catalogo delle materie di competenza concorrente tra Stato e Regioni.
A proposito del “Governo del territorio”, la Corte Costituzionale si è espressa con
la sentenza 303/2003, ribadendo ciò che era stato previsto dal legislatore ordinario nella legge 1150/42, ossia che edilizia e urbanistica costituiscono aspetti differenti, ma comunque legati tra loro, del governo del territorio .
Come sopra accennato, anche il governo del territorio è materia rientrante nella potestà concorrente tra Stato e Regioni. Resta, allora, da verificare quali siano i limiti che incontrano le Regioni, specialmente quelle a Statuto speciale, in ordine alla disciplina relativa all’assetto del territorio sotto tutti i profili, ivi incluso quello edilizio.
Com’è espressamente previsto dall’art. 117, Cost., nelle materie di legislazione concorrente, spetta allo Stato la determinazione dei principi fondamentali, mentre compete alle Regioni legiferare sulla base di quelli.
Nelle Regioni a statuto speciale (e, fra queste, anche la Sicilia), la materia è rinviata alla legislazione esclusiva della relativa Regione, con il limite del rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato e delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali, degli obblighi internazionali dello Stato e delle materie.
E’ noto che la dottrina costituzionale definisce principi generali quelli che presiedono all’intero ordinamento giuridico, e non già a settori, o parti di esso, per cui devono essere considerati come i fondamenti dell’ordinamento stesso per la loro attitudine a fondare l’intera coerenza e armonicità del sistema. La Corte costituzionale (sent. n. 6 del 1956) ha precisato che i principi dell’ordinamento giuridico sono quegli orientamenti e quelle direttive di carattere generale e fondamentale che si possono desumere dalla connessione sistematica, dal coordinamento e dall’intima razionalità delle norme che concorrono a formare, in un dato momento storico, il tessuto dell’ordinamento vigente. Essi scaturiscono da questa coerente e vivente unità logica e sostanziale del diritto positivo e devono essere enucleati dall’interprete. Tali sono, ad esempio, i principi della trasparenza, dell’affidamento, del contraddittorio e dell’obbligo di pubblicazione e comunicazione degli atti.
Un ulteriore limite, come sopra accennato, alla legislazione di tutte le Regioni, costituito dalle norme fondamentali economico-sociali della Repubblica, è previsto poi dagli statuti speciali, deve ritenersi applicabile a tutti i tipi di legislazione regionale e trova la sua giustificazione nella necessità di omogeneità dell’indirizzo economico-sociale dello Stato, nell’ambito delle leggi generali di riforma.
Peraltro, la legge 5 giugno 2003 n. 131, recante disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 16/10/2001 n. 3, recita all’art. 1, secondo comma, che “le disposizioni normative statali vigenti alla data di entrata in vigore della legge per le materie di competenza regionale continuano ad applicarsi in ciascuna Regione fino alla data di entrata in vigore delle disposizioni regionali sulle materie stesse”; al terzo comma, che “nelle materie di legislazione concorrente le Regioni esercitano la potestà legislativa nell’ambito dei principi fondamentali espressamente determinati dallo Stato o, in difetto, quali desumibili dalle leggi statali vigenti”; al quarto comma si delega il Governo all’emanazione di principi fondamentali in modo meramente ricognitivo.
Nelle recenti e importanti sentenze nn. 303 e 307 del 2003, la Corte costituzionale ha altresì individuato i limiti delle rispettive legislazioni nella materia del governo del territorio (urbanistica ed edilizia), specie per quanto riguarda il principio di sussidiarieta’ ed adeguatezza e quello di leale cooperazione.
Per ciò che riguarda la nostra trattazione, è stata riconosciuta una siffatta natura nelle leggi fondamentali urbanistiche (quali la legge n. 10/1977 e la legge n. 47/1985) relativamente a taluni principi, quali l’onerosità della concessione e la tendenziale omogeneità delle sanzioni amministrative: un accoglimento, sia pure parziale, di tali tesi è rinvenibile nella sentenza della Corte cost. n. 169 del 27-4/5-5-1994, che ha ritenuto in effetti illegittima un’eventuale sanatoria gratuita per l’utilizzo abitativo di sottotetti e scantinati, sia pure attribuendo alla legge censurata una diversa interpretazione.
Altri limiti sono quello del rispetto del diritto comunitario e quello delle materie. Come affermato in precedenza l’attuale formulazione dell’art. 117 della Costituzione ha portato a definire puntualmente le materie di competenza statale (esclusiva e concorrente). Fra esse è compresa la materia penale, per cui neppure le Regioni a statuto speciale possono, in materia di sanatoria con rilevanza penale, disciplinare i casi in modo più favorevole di quanto disposto dalle leggi statali ( siveda in passato la decisione della Corte cost. n. 231/1993).
Il problema più delicato, oggi, consiste nell’individuazione dei principi fondamentali statali ordinariamente contenuti nelle leggi-cornice, che valgono solo per la legislazione regionale concorrente o ripartita.
Si tratta di verificare se tali norme si pongano come mero limite ovvero come programma cui le leggi regionali debbano attenersi.
A parere di chi scrive, tali principi sono da considerare esclusivamente fondamentali, poiché da un lato deve affermarsi una funzione direttiva nei confronti di queste ultime, dall’altro, però, non si può certo ritenere che le leggi regionali siano ridotte a strumenti esecutivi o attuativi degli indirizzi statali. In base a quanto affermato, bisogna esaminare attentamente la normazione settoriale, anche recente, e cercare di distinguere i principi fondamentali dalle norme di dettaglio. Ad esempio, il testo unico dell’edilizia (D.P.R.380/01), all’art. 2, prevede che non tutte le sue disposizioni sono di principio, che molte sono di dettaglio o, addirittura, l’art. 3, terzo comma, dello stesso testo dispone che le disposizioni del testo unico, attuative dei principi di riordino, operano direttamente nei riguardi delle Regioni a statuto ordinario, fino a quando esse non si adegueranno ai principi stessi.
Generalmente, è stato affermato che le disposizioni definitorie (cfr. art. 3, che stabilisce la tipologia degli interventi minori, con concetti sostanzialmente analoghi a quelli della precedente legislazione, come quelli di manutenzione ordinaria, straordinaria, restauro, risanamento conservativo, ristrutturazione) sono di principio.
Inoltre, costituisce principio generale stabilire entro quali limiti l’attivita’ edilizia debba essere controllata e sottoposta se del caso a “deregulation”. Pertanto, rientra in tale principio il sancire la necessità, nei singoli casi, di permesso di costruire o di d.i.a., ecc.. E’ principio anche la considerazione secondo cui la disciplina del territorio spetta essenzialmente alle Regioni ed ai Comuni; lo snellimento (nel quadro dei principi della l. n. 241/90) delle procedure, per esempio attraverso l’istituzione dello sportello unico; e tutti quei principi la cui mancata attuazione comprometterebbe la tendenziale unicita’ dell’ordinamento dello Stato e il quadro unitario dell’economia.
Peraltro, l’art. 1 recita, testualmente, che il T.U. “contiene i principi fondamentali e generali” salvo, ovviamente, quanto precede in ordine alla disposizioni regolamentari e di semplice dettaglio. Ne risulta, in definitiva, una situazione molto articolata, nella quale è dato riscontrare la contestuale presenza di principi fondamentali, di principi non fondamentali o, addirittura, di semplice dettaglio, anche se talvolta operativi fino alla loro sostituzione da parte delle leggi regionali, e ancora di principi fondamentali ma parzialmente derogabili (“in melius” o “in pejus”) da parte delle leggi regionali o da altre fonti di normazione secondaria.

6 IL REGIME REPRESSIVO DEGLI ABUSIVISMI EDILIZI NEL TESTO UNICO DELL’EDILIZIA APPROVATO CON IL D.P.R. 380/01

Il sistema repressivo contro gli abusi edilizi ed urbanistici trova oggi organica sistemazione nel Titolo IV del T.U. sull’edilizia intitolato “Vigilanza sull’ attività urbanistico-edilizia, responsabilità e sanzioni “.
Esso contempla fondamentalmente quattro tipi di sanzioni: amministrative, penali, civili, accessorie; prevedendo altresì un insieme di obblighi gravanti su vari soggetti (ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, segretari comunali, ufficio tecnico erariale, direttore dei lavori, notai, aziende erogatrici di servizi pubblici, imprese che servono a rafforzare 1’efficacia del sistema stesso).
Per quanto riguarda le sanzioni amministrative, appare utile sottolineare che la legge del ‘42 (art. 32) si limitava a prevedere la demolizione e la rimessa in pristino. La successiva legge n. 765/1967 ha arricchito il sistema con la previsione della sanzione pecuniaria pari al valore delle opere abusive in alternativa alla demolizione (che rimaneva tuttavia la regola). La legge n. 10/1977 ha introdotto la confisca per le ipotesi più gravi, nel caso di inottemperanza del privato all’ ordine del comune di demolire le opere abusive.
La legge n. 47/1985 ha cercato, infine, di razionalizzare il sistema, dettando una normativa di principio (costituente limite per la legislazione regionale) che tende a graduare le sanzioni in relazione alla maggiore, o minore, gravità dell’infrazione.

a) La vigilanza. il provvedimento cautelare della sospensione dei lavori
L’art. 27 del T.U. attribuisce ora al dirigente (o, comunque, al responsabile del competente ufficio comunale) il compito di esercitare la vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurare la rispondenza delle costruzioni alle prescrizioni urbanistiche vigenti e alle modalità esecutive fissate nella concessione edilizia. A tal fine, egli potrà avvalersi di funzionari e agenti comunali e di ogni altro mezzo di controllo che ritenga più opportuno.
b) Sanzioni amministrative: i poteri del comune
Nel disegnare il regime delle sanzioni amministrative in campo edilizio, il legislatore sembra aver tenuto conto di due criteri fondamentali : uno di carattere formale, che gradua la sanzione a seconda se la costruzione sia del tutto priva di concessione (rectius, permesso di costruire) o se ne discosti parzialmente; l’altro (quello privilegiato) di carattere sostanziale. Per effetto di tale secondo criterio per esempio, si può ottenere la sanatoria di opere totalmente abusive (in quanto sprovviste di permesso edilizio) ma conformi alla normativa sostanziale urbanistica.
Si possono distinguere, entrando ancor più nel dettaglio, diverse ipotesi.

1) Opere eseguite in assenza di permesso di costruire (art. 31 T.U.).
Le conseguenze giuridiche derivanti dall’inizio, o dalla realizzazione di un’ opera in assenza di permesso edilizio, possono variare in relazione all’entità del danno urbanistico in concreto arrecato, nonché in riferimento al tipo di opera realizzata. Le sanzioni applicabili sono: la “ demolizione” e la “ confisca “.
Lo schema seguito dal legislatore è il seguente: una volta accertato il carattere abusivo di un’opera il dirigente ingiunge la demolizione. Se il responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione, e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall’ingiunzione, il bene (con la relativa area di sedime e con quella di pertinenza) è acquisito gratuitamente al patrimonio del Comune .
Secondo la giurisprudenza prevalente, l’acquisizione deriverebbe
automaticamente dalla scadenza del termine, costituendo l’accertamento dell’inottemperanza alla demolizione (previa notifica all’interessato) atto ricognitivo, costituente solo titolo per l’immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari (art. 7, comma 4, l.47/85 – cfr. Cons. St. V, 23-1-91 n.66). Avvenuta l’acquisizione possono verificarsi due evenienze: la demolizione di ufficio dell’opera a cura del Comune ma a spese del contravventore; ovvero il mantenimento della medesima. Questo sistema che - ripetiamo - costituisce quello base, può subire talune varianti in relazione al tipo di opera realizzata, alla maggiore o minore gravità del danno urbanistico, nonché alla pluralità di interessi pubblici lesi (coesistenza ad es. di un danno urbanistico e paesaggistico).

Cercheremo, quindi, di descrivere le sub-fattispecie previste dal legislatore:

· opere eseguite senza permesso edilizio ma conformi agli strumenti urbanistici.

Sino alla scadenza del termine di 90 giorni dall’ingiunzione a demolire, il contravventore ha la possibilità di presentare una richiesta di permesso in sanatoria, pagando tuttavia a titolo di oblazione il contributo edilizio in misura doppia rispetto a quello normalmente richiesto (art. 36 T.U.).
È evidente che la “sanatoria” viene qui a interrompere il procedimento sanzionatorio.
Nessuna sanzione pecuniaria è invece prevista per le “ varianti in corso d’opera” conformi alla normativa urbanistica, che non comportino modifiche della sagoma, delle superfici utili e delle destinazioni d’uso, purché non si tratti di interventi di “ restauro conservativo “ o di lavori su immobili d’interesse storico-artistico o paesaggistico. L’approvazione della variante deve comunque essere richiesta prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori;

· opere eseguite su aree assoggettate da norme di piano regolatore o da norme di legge a vincolo di inedificabilità o destinate ad opere o spazi pubblici (art. 31, comma 6).

Il procedimento sanzionatorio segue il suo corso più tipico: ingiunzione alla demolizione; eventuale acquisizione gratuita (nel caso di inottemperanza da parte del privato ad effettuare l’effettiva demolizione); demolizione di ufficio da parte del Comune. Date peraltro le note difficoltà pratiche dei Comuni nel realizzare le “ demolizioni “, è stata dettata una minuziosa normativa (art, 41, comma 4 T.U.) che consente l’utilizzazione delle strutture tecnico-operative del Ministero della difesa.

· opere di ristrutturazione edilizia ex art. 10) letto c) T.U..

Le opere di ristrutturazione edilizia più impegnative (c.d. “ristrutturazioni innovative”), elencate nell’anzidetto art. l0, lett. c) (quelle che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche di volumi, ecc.) eseguite in assenza di permesso edilizio, sono demolite, ovvero rimosse in modo da rendere gli edifici conformi alle prescrizioni degli strumenti urbanistici (art. 33 T.U.).
La procedura prescritta è la seguente: il “dirigente”, con propria ordinanza, intima la demolizione delle opere, assegnando al trasgressore un termine per provvedere; trascorso infruttuosamente il quale, l’ordinanza stessa è eseguita dal Comune a spese del responsabile dell’abuso. In alternativa alla demolizione (quando sulla base di motivato accertamento dell’ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non è più possibile) il dirigente irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell’aumento di valore dell’immobile. Se le opere sono state eseguite su immobili (anche non vincolati) compresi nei centri storici, i due anzidetti provvedimenti sanzionatori devono essere assunti dietro parere vincolante dell’amministratore preposta alla tutela dei beni culturali e ambientali. Se le opere riguardino immobili vincolati ai sensi della legge sulle bellezze naturali o artistiche, la riduzione in pristino viene ordinata ed eventualmente curata direttamente dall’amministrazione competente all’osservanza degli anzidetti vincoli.

2) Opere eseguite in totale difformità dal permesso edilizio o con variazioni essenziali.

Gli artt. 31 e 32 T.U. definiscono rispettivamente il concetto di “ opera in totale difformità” dal permesso edilizio o con “ variazioni essenziali “. Il relativo regime è quasi del tutto equiparato a quello delle opere totalmente abusive. Qualche diversità riguarda invece le sanzioni penali, ove le “opere con variazioni essenziali” hanno un trattamento meno rigoroso rispetto a quello delle opere totalmente abusive o in totale difformità . Sembra opportuno sottolineare che il predetto art. 32 (lett. a)) include tra le “ variazioni essenziali” i mutamenti di destinazione d’uso (non si specifica con quale tipo di interventi strutturali) che implichino una variazione degli standards.

2) Opere eseguite in parziale difformità dal permesso di costruire.

Per questa fattispecie è prevista la demolizione o in alternativa la sanzione pecuniaria (art. 34 T.U.). Più in particolare, il dirigente ordina la demolizione assegnando ai trasgressori un congruo termine, scaduto il quale le opere sono demolite a cura e spese del Comune. Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte conforme si applica una sanzione pecuniaria pari al doppio del costo di costruzione della parte dell’ opera realizzata in difformità (se 1’edificio è ad uso residenziale) e pari al doppio del valore venale per le opere adibite ad uso diverso da quello residenziale.

3) Opere eseguite in assenza o in difformità della denuncia di inizio attività.

È prevista una sanzione pecuniaria pari al doppio dell’ aumento di valore venale dell’immobile comunque non inferiore ad € 250,00 (art. 37 T.U.). Se però le opere insistono su immobili siti nel centro storico, la sanzione pecuniaria può essere sostituita con l’ordine di ripristino. In ogni caso è richiesto il parere vincolante dell’ amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali.
Se, infine, si tratta di beni vincolati, 1’autorità competente a vigilare sull’osservanza del vincolo può ordinare la restituzione in pristino a cura e spese del contravventore, irrogando una sanzione pecuniaria da € 1032,00 a 10.032,00.

4) Opere eseguite in base a permesso di costruire annullato (art. 38 T.U.).

Le fattispecie contemplate nell’ art. 38 sono due: annullamento da vizio procedimentale; annullamento da vizio sostanziale.
Per la prima ipotesi (vizio procedimentale), la legge fa obbligo all’amministrazione di valutare anzitutto la possibilità di concedere una sorta di sanatoria da attuare attraverso “la rimozione dei vizi delle procedure amministrative “. Si tratta - è bene sottolineare - di una ipotesi di scuola, poichè se il vizio della concessione è soltanto formale, l’amministrazione dovrebbe seguire la via più diretta di non operare l’annullamento per mancanza del danno urbanistico.
Nel caso, invece, di vizio sostanziale l’amministrazione dovrà perseguire la strada della “restituzione in pristino “. Ma qualora neppure questa sia praticabile dovrà applicarsi una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere eseguite.

5) Opere eseguite da soggetti privati o pubblici (purché diversi dalle “ ammistrazioni statali”) su suoli di proprietà dello Stato o di enti pub-blici (art. 35 T.U.).

Nei casi di opere eseguite da parte di soggetti, diversi dalle amministrazioni statali, su suoli del demanio, o del patrimonio dello Stato o di enti pubblici, in assenza di permesso di costruire (o anche in totale o parziale difformità dal medesimo), vale il seguente regime: il dirigente previa diffida al responsabile dell’abuso ordina la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi. Una volta constatata l’inosservanza della diffida, la demolizione è eseguita direttamente dal Comune, a spese dei responsabili dell’ abuso.
È da notare che, in questo caso, non è contemplata l’acquisizione gratuita al patrimonio del Comune, trattandosi di aree di proprietà dello Stato o di altri enti pubblici.

6.1. SEGUE:LE SANZIONI PENALI

Nei confronti dei trasgressori delle disposizioni urbanistico-edilizie la legge appresta, in aggiunta alle sanzioni amministrative, delle sanzioni penali graduate secondo la gravità dell’illecito. Queste misure, già contemplate dalla legge del ‘42, sono state progressivamente inasprite. L’art. 44 T.U. prevede:

a) l’ammenda fino a € 10.032,00 per l’inosservanza delle norme di legge, di regolamento edilizio, delle prescrizioni degli strumenti urbanistici e delle modalità esecutive del permesso edilizio;

b) l’arresto fino a due anni e l’ammenda da € 5.164,00 ad € 51.640,00 nei casi di esecuzione dei lavori in totale difformità o assenza del permesso o di prosecuzione degli stessi nonostante l’ordine di sospensione. Si è discusso se, agli effetti penali, potesse equipararsi alla fattispecie “ costruzione in assenza di permesso” quella di costruzione effettuata con licenza illegittima. I giudici di merito, talvolta, hanno effettuato tale equiparazione, argomentando dall’art. 5 1 1865 n.2243 all.E ( cd abolitiva del Contenzioso amministrativo) che attribuisce all’autorità giudiziaria ordinaria il potere di “disapplicare” i provvedimenti illegittimi. .
A parere di chi scrive, non appare ostare a tale visione la formulazione della norma incriminatrice che parla di attività edilizia non previamente autorizzata. Infatti, un permesso di costruire, ancorché illegittimo, ma non annullato, costituirebbe sempre un titolo abilitativo edilizio idoneo a rendere lecita la costruzione. Inoltre, il giudice ordinario non potrebbe annullarlo (con efficacia ex tunc) ma solo disapplicarlo . Da ciò deriverebbe la non punibilità del soggetto che ha edificato con permesso di costruire illegittimo. Ma è proprio nella tecnica della disapplicazione, espressamente prevista dalla legge abolitiva del contenzioso, che risiede la soluzione al problema. Se con la disapplicazione si estromette dal giudizio l’atto ritenuto illegittimo, considerandolo per l’effetto tamquam non esset, viene a mancare quella “condizione di liceità” la cui presenza rende la condotta dell’agente scevra da qualsiasi rimprovero. Tale opzione argomentativa non appare contraddetta neanche dal pericolo che potrebbe derivare dal contrasto tra il giudice penale, che ritiene l’atto amministrativo illegittimo, e quello amministrativo, che accoglie un’eventuale impugnazione presentata contro l’atto di annullamento del titolo edilizio stesso, poiché l’art. 479 c.p.p., con le dovute limitazioni, consente al giudice penale di sospendere il dibattimento nell’attesa che il giudice amministrativo si pronunzi sulla legittimità o meno, dell’atto di ritiro, con cui l’amministrazione ha annullato il permesso di costruire illegittimo. c) l’arresto fino a due anni e l’ammenda da € 15.493,71 ad € 51.645,00 nel caso di interventi edilizi nelle zone sottoposte a vincolo storico, artistico, archeologico, paesistico, ambientale in variazione essenziale, in totale difformità o in assenza del permesso edilizio.
L’azione penale relativa alle violazioni edilizie rimane però sospesa finché non siano esauriti gli eventuali procedimenti amministrativi di sanatoria (previsti, come si ricorderà per il caso di opere abusive conformi alla normativa urbanistica). Il rilascio della sanatoria estingue il reato di cui sopra. Secondo l’orientamento prevalente, i reati contravvenzionali sopra descritti hanno carattere permanente, protraendo i loro effetti fino a che dura la condotta vietata dalla legge . Però, mentre per la giurisprudenza amministrativa la” permanenza” dell’illecito viene a cessare solo con la “ demolizione “, nella giurisprudenza penale si è consolidato l’indirizzo che vede nell’ultimazione dei lavori il momento in cui viene meno detta permanenza .

SEGUE: 6.2 SANZIONI CIVILI

L’art. 46 T.U. sancisce la regola della nullità degli atti tra vivi aventi per oggetto trasferimento (o costituzione o scioglimento della comunione) di diritti reali relativi ad edifici privi di permesso edilizio o in contrasto con esso, la cui costruzione abbia avuto inizio dopo il 17 marzo 1985 (giorno di entrata in vigore della legge n. 47/1985). Per rafforzare tale principio la norma prevede che per la stipula degli atti è necessaria - pena la nullità dell’atto stesso - una dichiarazione dell’alienante attestante gli estremi del permesso di edificare o di quello in sanatoria. Detta dichiarazione dovrà risultare dall’atto, o anche da una dichiarazione unilaterale successiva, che serve a confermare 1’atto medesimo impedendone la dichiarazione di nullità.

7. IL CONDONO EDILIZIO : DALLA LEGGE 47/85 ALLA LEGGE 326/03

Dopo aver indicato brevemente l’evoluzione della legislazione statale in materia urbanistico- edilizia, appare utile soffermarsi sulla disciplina del c.d. condono. Prima della legge n. 47/85, vi erano stati episodiche previsioni di condono da parte della legislazione regionale: ad esempio la l.r. Lazio n. 28/80, che contemplava varianti urbanistiche che recuperassero le costruzioni abusive, con possibilità di concessione in sanatoria; poi la l.r. Sicilia n. 7/80, mod. dalle leggi regg. n. 70/81 e 65/84, che prevedeva analogamente perimetrazioni di zone o di singoli edifici da condonare.
Successivamente, lo Stato ha agito in via generale con tre decreti legge non convertiti (dd.ll.. nn. 486/82, 688/83 e 529/83) ma salvati quanto all’efficacia dall’art. 31, comma quarto, l. 47/85. Quest’ultima organica normativa denominava il condono come “sanatoria”, agendo sulla scorta di un titolo abilitante “a posteriori”, previo versamento di oblazione e contributi di concessione. Nello stesso tempo, però, introduceva una serie articolata di sanzioni repressive e ripristinatorie. Seguirono modifiche da parte del d.l. 146/85, convertito in l. 298/85; del d.l. 656/85, convertito in l. 780/85; del d.l. n. 2/88, convertito in l. 68/88; e di numerosi decreti-legge non convertiti (nn. 178/87; 264/87, 367/87; 458/87).
Il condono, come è noto, agiva in via generale per tutte le opere costruite senza licenza, concessione o autorizzazione, o su titolo annullato o divenuto inefficace, ponendo sbarramenti temporali riferiti all’epoca di esecuzione. Inoltre vietava, o subordinava, le opere a talune autorizzazioni, o cautele, per salvaguardare vincoli o prescrizioni sulle aree.
Regola generale era quella della non condonabilità nel caso di vincolo di inedificabilità assoluto (cioè non rimuovibile su parere dell’autorità preposta). Veniva disciplinato un articolato procedimento per la concessione del condono, con fissazione dei termini e delle modalità; della sua definizione anche con atto tacito e infine (art. 44, l. 47/85) della sospensione dei provvedimenti sanzionatori e della loro esecuzione, dei provvedimenti penali e di quelli giurisdizionali amministrativi, nonché del recupero delle agevolazioni.
Unitamente (o anche indipendentemente, nel caso di versamento dell’oblazione) all’ottenimento del titolo sanante si estinguevano i reati urbanistico-edilizi e si ripristinavano le agevolazioni; venivano anche meno le sanzioni fiscali o di tipo civilistico (non commerciabilità del bene o altro).
Tale legge, però, non nacque sotto i migliori auspici, apparendo subito densa di contraddizioni che si concretizzarono poi nell’applicazione pratica della l.47/85. In primo luogo si fece grande confusione, fra i termini “condono” e “sanatoria”. I cittadini, infatti, non si erano resi conto che mentre il condono è il provvedimento dello Stato volto a sanare fenomeni di abusivismo, previa autodenuncia e pagamento di un’ammenda.
La concessione in sanatoria, invece, è l’atto amministrativo finale con cui viene, se non legittimata, legalizzata l’opera abusiva. Ma in tanti hanno ritenuto – e tuttora ritengono - il condono sinonimo di sanatoria. A rafforzare questo (errato) convincimento aveva provveduto lo stesso legislatore con il disposto degli artt. 38 e 40 della l.47/85. L’art. 38, al comma 1, stabilisce infatti che la presentazione, nei termini dell’istanza di condono e l’attestazione del versamento dell’oblazione “sospende il procedimento penale e quello per le sanzioni amministrative”.
Al comma 2 stabilisce poi che “l’oblazione interamente corrisposta estingue i reati di cui all’art. 41 della l. 17 agosto 1942, n. 1150” e di cui a tutte le leggi successive.
L’art. 40 a sua volta prevede la nullità degli atti notarili di trasferimento di immobili costruiti senza concessione edilizia, ma ne ammette la liceità a condizione che vengano comunicati al notaio gli estremi della concessione in sanatoria ottenuta, ovvero consegnata la semplice copia della richiesta di concessione in sanatoria e riferiti gli estremi dell’avvenuto pagamento delle prime due rate dell’oblazione.
Le due disposizioni dianzi richiamate inducevano a ritenere la presentazione della richiesta della concessione in sanatoria e il pagamento dell’oblazione come condizioni non soltanto necessarie, ma anche sufficienti, sia per il rilascio della concessione in sanatoria sia per l’estinzione dei reati.
Di conseguenza ogni cittadino avrebbe (ed in concreto ha) ragionato in tal modo:
per ottenere la concessione in sanatoria devo presentare l’istanza e pagare l’oblazione e, se l’immobile non si trova in zona vincolata, posso completare le opere perché me lo consente l’art. 35 l.47/85. Dopo due anni, se non ho ricevuto la concessione in sanatoria, posso far finta di averla ottenuta (lo dice sempre l’art. 35) e comunque posso vendere il mio appartamento, perché me lo consente l’art.
40. Stanti così le cose, vien fatto di chiedersi a che serve la concessione in sanatoria se, avendo pagato, si ottiene l’estinzione del reato e la possibilità di commercializzare il mio bene? Ma, soprattutto, se per ottenere la sanatoria devo corrispondere al Comune gli oneri concessori previsti dall’art. 37, mi accontento della presentazione della domanda ma non pago gli oneri.
Un nuovo condono edilizio veniva introdotto dal d.l. n. 468/94, seguito dal d.l. n. 649/94 e dalla conversione nell’art. 39 della legge n. 724/94. Seguivano poi modifiche con numerosi decreti-legge (24/95; 88/95; 193/95; 310/95; 400/95; 498/95; 30/96; 338/96; 495/96) e infine, dopo la decadenza di tali decreti (puntualmente salvati negli effetti), con la l. n. 662/96.
Tale condono appare essere una riapertura dei termini del precedente, ed un esaustivo richiamo al procedimento, con lievi modifiche; alle preclusioni ed i limiti; alle ipotesi di sospensione; agli effetti, con qualche piccola precisazione per i diritti dei terzi non lesi dal condono.
La nuova legge condonistica, adottata con il dl 269/03, convertito con l. 326/03, raggruppa tutte le disposizioni al riguardo in un unico articolo (l’art. 32) denominato, in modo sontuoso, “misure per la riqualificazione urbanistica, ambientale e paesaggistica, per l’incentivazione dell’attività di repressione dell’abusivismo edilizio, nonché per la definizione degli illeciti edilizi e delle occupazioni di aree demaniali”.
A fronte della finalità preminente della legge che è quella di consentire, in conseguenza del condono, il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria delle opere esistenti, si pone l’affermazione secondo cui sono fatte salve le competenze delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome e quelle delle Regioni a statuto ordinario e dei Comuni per quanto riguarda il governo del territorio, nelle more dell’adeguamento della disciplina regionale ai principi del testo unico per l’edilizia (D.P.R. n. 380/2001).
La competenza regionale è specificamente richiamata soltanto dai seguenti commi dell’art.32.

a) c. 3: a livello di normativa di dettaglio per le condizioni, i limiti e le modalità di rilascio del titolo abilitativo edilizio;
b) c. 33: per la fissazione di “norma per la definizione del procedimento amministrativo relativo al rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria” e della previsione della possibilità di un incremento dell’oblazione fino al massimo del 10% della misura determinata nella tabella C allegata alla legge. A tal proposito va osservato che la legge statale disciplina minutamente il procedimento di rilascio, i suoi termini, parte della documentazione e gli effetti, per cui, come deve altresì desumersi dal comma 35, lett. c), le Regioni dovranno limitarsi a prescrivere ulteriore documentazione (quale?) o norme sostanzialmente regolamentari. c) c. 34: a proposito della possibilità di incrementare gli oneri di concessione relativi alle opere abusive oggetto di sanatoria fino al massimo del 100%; d) c. 26, lett.b): per le opere di restauro, di risanamento conservativo e di manutenzione straordinaria, in assenza o in difformità dal titolo abilitativo, per la determinazione della possibilità, delle condizioni e delle modalità per l’ammissione a sanatoria.
La maggioranza delle disposizioni, quindi, riguarda la disciplina del condono (opere sanabili, soggetti legittimati, limiti, termini, procedimento in genere ed effetti della sanatoria). Relativamente a queste ultime materie si osserva, altresì, che le disposizioni sono in sostanza ripetitive o addirittura di semplice richiamo (v. i commi 25, 26, 27, 28, 40, 41, 43, ecc.), semmai con limitate modifiche, delle norme del passato condono.
Rispetto al precedente condono, non appare mutato il limite quantitativo (cioè in termini di percentuale ed ora, in assoluto, in 3.000 mc. complessivi) delle opere edilizie sanabili. Secondo il comma 25 dell’art.32, tale limite è in sostanza identico al precedente. La giurisprudenza aveva interpretato le disposizioni circa il limite del 30% della volumetria originaria (o, in alternativa ,sull’ampliamento non superiore a 750 mc.) in modo tale da non consentire elusioni della legge attraverso uno spezzettamento delle domande e la Corte costituzionale (sent. n.302/1996) ha ritenuto legittime le disposizioni solo se interpretate in senso antielusivo.

PARTE II : LA LEGISLAZIONE DELLA REGIONE SICILIA IN MATERIA URBANISTICA

1. LA LEGISLAZIONE STATALE E REGIONALE SUL CONDONO:RAPPORTI E LIMITI

I principi indicati nella parte prima § 5 trovano applicazione per la materia del condono.
Appare incontestabile che al legislatore statale competa in via esclusiva il potere di disciplinare le sanzioni penali e fiscali e, se del caso, le agevolazioni. Discorso differente attiene, invece, alla possibilità per la Regione di legiferare in ordine all’emanazione di un titolo abilitativo sanante le costruzioni abusive. I titoli abilitativi edilizi rientrano certamente nell’ambito della materia urbanistica che appartiene al governo del territorio. Ciò comporta che lo Stato può solo fissare i principi generali al riguardo. Conseguentemente la regola, prevista dallo Stato, dovrebbe essere l’esistenza del titolo abilitativo, mentre l’eccezione è la sanatoria, la cui disciplina dovrebbe essere di competenza regionale. Di contro, però, non appare corretto ritenere il condono alla stregua di un principio generale della materia urbanistica, sia perché stimolerebbe lo sviluppo di una cultura dell’illegalità (che nel nostro ordinamento e specialmente per l’edilizia, appare già sin troppo sviluppata), sia perché in tal modo si creerebbero delle deroghe agli strumenti urbanistici invadendo, per l’effetto, la competenza regionale e degli Enti locali.
A ciò si deve aggiungere che sarebbe anche intaccato il principio di leale collaborazione fra lo Stato e le Regioni, affermato costantemente dalla Corte costituzionale.
Ora, in via meramente ipotetica , il condono potrebbe estendersi solo ai casi in cui l’immobile sia conforme allo strumento urbanistico dell’epoca della costruzione, ma probabilmente, nulla di più di questo.
Quindi, qualora la legge statale avesse inteso disciplinare la materia del condono in modo tale da invadere la sfera di competenza delle Regioni, non sarebbe possibile ritenerla legittima specialmente alla luce del nuovo titolo V della Costituzione, tanto più che il condono non sembra potersi annoverare tra i principi generali sull’urbanistica e sull’edilizia .
A conferma di quanto asserito si pone l’importante sentenza della Corte Costituzionale n.196/04 che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 32 d.l.269/03, conv. in l.326/03, “ nella parte in cui non prevede che la l. reg. possa determinare la possibilità, le condizioni e le modalità per l’ammissibilità a sanatoria di tutte le tipologie di abuso edilizio di cui all’allegato 1 d.l. n. 269 del 2003. Premesso che, nei settori dell’urbanistica e dell’edilizia, i poteri legislativi regionali sono senz’altro ascrivibili alla nuova competenza di tipo concorrente in tema di “governo del territorio”, e che, in riferimento alla disciplina del condono edilizio, per la parte non inerente ai profili penalistici, integralmente sottratti al legislatore regionale, solo alcuni limitati contenuti di principio possono ritenersi sottratti alla disponibilità dei legislatori regionali, cui spetta il potere concorrente di cui al nuovo art. 117 cost., mentre per tutti i restanti profili deve riconoscersi al legislatore regionale un ruolo rilevante - ancor più ampio per le regioni a statuto particolare che, in base ai rispettivi statuti, hanno competenza esclusiva in materia di urbanistica ed edilizia - di articolazione e specificazione delle disposizioni dettate dal legislatore statale in tema di condono sul versante amministrativo”.
Successivamente la Corte Costituzionale con la sentenza n.49/06, è tornata a pronunziarsi su tale argomento, affermando che “essendo la disciplina del condono straordinario da parte delle regioni, riconducibile alla materia governo del territorio, di competenza concorrente, da un lato, ben possono aversi discipline diverse da quanto previsto dall’art. 32 d.l. n. 269 del 2003, quale conv. dalla l. n. 326 del 2003, non potendosi certo ritenere incoerente rispetto al disegno costituzionale che siano adottate legislazioni diversificate da Regione a Regione, con tutto ciò che ne consegue per gli interessati e per le pronunce giurisdizionali che facciano applicazione di tale disciplina, e, dall’altro, si deve riconoscere in materia al legislatore regionale un ampio potere discrezionale nella possibilità di definire i confini entro cui modulare gli effetti sul piano amministrativo del condono edilizio straordinario, tanto più che il comma 25 e il comma 26 dell’art. 32 d.l. n. 269 del 2003 sono stati dichiarati costituzionalmente illegittimi”. Alla luce di tali decisioni, quindi, i problemi interpretativi ed applicativi, anche in relazione al regime sanzionatorio, varieranno da regione a regione a seconda di come sarà utilizzato il potere legislativo locale.

2. LA POTESTA’ LEGISLATIVA ESCLUSIVA DELLA REGIONE SICILIA IN MATERIA URBANISTICA.

Come è noto, la Regione Sicilia è a Statuto speciale e la relativa “Carta dell’autonomia” è stata approvata addirittura prima dell’avvento della Costituzione Italiana.
L’art.1 dello Statuto siciliano stabilisce i due importanti principi dell’autonomia e dell’unità politica dello Stato italiano.
Secondo il primo (autonomia), i siciliani hanno il privilegio di governarsi da sé, ma sono cittadini italiani tenuti a rispettare i principi democratici e fondamentali posti a fondamento dell’ordinamento repubblicano italiano. L’autonomia della Regione Siciliana si esplica attraverso l’autonomia legislativa ed amministrativa, in particolare gli articoli 14 e 17 dello Statuto disciplinano rispettivamente la potestà legislativa esclusiva e quella concorrente della Regione.
La prima prevede la possibilità per il legislatore siciliano di regolamentare determinate materie in modo autonomo rispetto alla disciplina dettata a livello statale, soggiacendo ai limiti espressamente previsti dall’art.14 cit., costituiti dalle leggi costituzionali dello Stato e dalle cc.dd. leggi di grande riforma economicosociale. Di contro l’art.17 contempla la potestà legislativa concorrente (oggi prevista a livello costituzionale per tutte le regioni dal novellato art.117 Cost.) secondo la quale la Regione può legiferare su determinate materie in base ai principi generali fissati dalle leggi dello Stato.
Orbene, l’urbanistica che oggi è parte del governo del territorio secondo l’art.117 Cost., rientra tra le materie sulle quali la Regione Siciliana esercita la potestà legislativa esclusiva, così come prevede l’art.14 lett. f) dello Statuto regionale.
Tale disposizione, però, ha causato vari problemi di coordinamento tra la normativa nazionale e quella regionale sull’assetto del territorio. A riprova di ciò si pone la l.r. 28 dicembre 1971 n.78 intitolata “Norme integrative e modificative della legislazione vigente nel territorio della regione siciliana in materia urbanistica”, che non costituisce affatto un’organica disciplina in materia urbanistica, ma cerca di coordinare la legislazione statale con quella regionale operando anche delle integrazioni.
Tale legge ha subito varie modifiche nel tempo e anche se in alcuni casi ha superato indenne il sindacato di legittimità costituzionale (cfr. Corte Cost. sentenza n.13/80, oppure Corte Cost. sentenza n.82/82, in ordine alla determinazione della durata dei vincoli urbanistici, da ultimo Corte Cost. ord. 175/00), nel complesso non appare esaustiva, ma nonostante ciò costituisce sempre un testo normativo regionale di riferimento per la materia.

3. LA LEGISLAZIONE CONDONISTICA SICILIANA ED I RICHIAMI ALL’ORDINE DELLA GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE .

A partire dagli anni ‘80, la Regione Sicilia ha approvato una sanatoria edilizia con le leggi 7/80 e 70/81, mentre la prima vera legislazione regionale in materia di sanatoria della opere abusive è stata la l.r. 10 agosto 1985 n.37.
Con tale normativa, il legislatore siciliano ha richiamato l’applicabilità della legge 47/85 all’interno della Regione, prevedendo alcuni scostamenti dalla stessa di rilevante importanza, specialmente ai fini sanzionatori.
Il primo comma dell’art.1 l.r. 37/85 stabilisce che si applica in Sicilia la l.47/85 ma con: “..le sostituzioni , modifiche ed integrazioni di cui alla presente legge”.
Così l’art. 4 della l 47/85 viene richiamato dall’art. 2 della l.r. 37/85, ma con un contenuto differente. Anche l’art. 8 della l 47/85, che disciplina la determinazione delle variazioni essenziali al progetto approvato, viene richiamato dall’art. 4 della legge regionale che ne modifica il contenuto.
L’art.12 della l. 47/85 che viene richiamato dall’art. 7 della l.r. 37/85, ma viene integrato da un comma che, in buona sostanza, nel non considerare difformità parziali quelle variazioni ai parametri edilizi che non superino la tolleranza di cantiere del 3%, rende praticamente non punibili quelle difformità che, a livello statale, sarebbero sottoposte a sanzione.
Ancora l’art. 26 della l.47/85, sulle opere interne, viene richiamato dall’art. 9 della l.r. 37/85 ma viene integrato con una locuzione che , anche in tale caso, rende lecite e legittime delle opere che fuori dalla regione Sicilia sarebbero abusive: il riferimento è alla chiusura di verande e balconi con strutture precarie. Esistono altre norme statali richiamate dalla legge regionale siciliana, con modifiche integrazioni e sostituzioni, ma in tale sede non appare utile riproporle rinviando gli interessati ad una lettura coordinata delle due leggi.
La “sanatoria” siciliana è stata poi modificata ed integrata dalla l.r. 26/86, a seguito di tali modifiche la l.r. 37/85 venne sottoposta varie volte al sindacato di legittimità costituzionale, talvolta subendo la dichiarazione di incostituzionalità, altre volte uscendo indenne dal sindacato del giudice delle leggi.
In particolare la Corte Costituzionale, con la sentenza n.487/89, ha dichiarato illegittimo l’art. 3 l. reg. Sicilia 1986 n. 26, contenente norme integrative della l. reg. Sicilia 10 agosto 1985 n. 37, nella parte in cui, ai fini dell’applicabilità della normativa sul c.d. condono edilizio, disponeva che si “intendono come ultimati, nella regione Sicilia, gli edifici nei quali sia stata eseguita la struttura portante”, mentre la normativa statale dichiara ultimati gli edifici nei quali siano stati eseguiti sia il rustico che la copertura. In tal modo la Regione si arrogava la potestà di determinare una causa estintiva del reato edilizio, potere questo attribuito esclusivamente al monopolio normativo dello Stato.
Di contro, con la sentenza 201/1992 , la Corte Costituzionale ha ritenuto non fondata la questione di costituzionalità sollevata nei confronti dell’art. 5 l.r.37/85, ritenuto illegittimo nella parte in cui prevedeva che “l’autorizzazione del sindaco sostituisce la concessione (...) per la costruzione di recinzioni, con l’esclusione di quelle dei fondi rustici di cui all’art. 6”. Il giudice rimettente sosteneva che tale tipologia costruttiva in base alla normativa nazionale soggiacesse a concessione edilizia, sì che la sua edificazione senza tale atto ampliativo avrebbe integrato il reato di cui all’art. 20, lett.b) l.47/85. Al contrario, secondo la normativa regionale siciliana, sospettata di illegittimità costituzionale, l’opera è invece soggetta al regime delle autorizzazioni e, per il combinato disposto dell’art. 5, primo comma, della legge regionale cit. e dell’art.10, comma 2 legge 28 febbraio 1985, n. 47, il fatto in contestazione sarebbe penalmente privo di rilevanza.
La Corte affermò che le recinzioni, opere non espressamente previste dalla legge statale, dovevano ritenersi, (così come erano ritenute dalla giurisprudenza) opere non soggette a concessione, atteso che hanno natura pertinenziale in quanto strumentalmente collegati al miglior uso di edifici preesistenti. Da tali considerazioni la conclusione secondo cui l’art. 5 della legge del 1985, n. 37, nel prevedere espressamente la costruzione di recinzioni tra le opere da eseguire previa autorizzazione, e senza che sia richiesta la concessione edilizia, “non introduce elementi di difformità rispetto alla legge statale; integra piuttosto la formula da questa adottata, alla ricerca di una maggiore chiarezza nel contesto di previsioni che, tutte, escludono un nuovo carico urbanistico”.
Nel 1994, la Regione è tornata a legiferare in materia con la l.r. n.17/94 .
Anche tale legge conteneva degli scostamenti dalla legislazione nazionale. L’art. 2, comma 5 l.cit. prevede la formazione del silenzio assenso trascorsi 120 giorni dal ricevimento della domanda di concessione (oggi permesso di costruire), mentre a livello statale non viene fatto alcun richiamo a tale istituto. Proprio sull’utilizzazione del silenzio assenso è utile soffermarsi.
Appare chiaro che l’esercizio della funzione autorizzatoria dell’amministrazione assicuri migliori risultati nella gestione e salvaguardia del territorio rispetto a quelli conseguibili con l’impiego del silenzio-assenso.
Anche se il permesso di costruire non abbisogni di scelte di opportunità, nella valutazione della conformità dell’intervento edile ai requisiti e ai presupposti di legge, l’attività dell’amministrazione offre maggiori garanzie rispetto a quella del privato e del progettista, sicuramente meno interessati a svolgere secondo canoni di obiettività le operazioni di riscontro dell’effettiva congruenza dell’opera realizzando con quella prevista dalla fattispecie astratta, confortati dalla concreta possibilità della formazione del silenzio.
Orbene, sebbene coincidente quanto agli effetti giuridici, il silenzio-assenso si distingue nettamente dall’attività amministrativa concretamente esercitata, perché esso opera a prescindere da qualsiasi verifica e riscontro da parte dell’autorità in ordine alla sussistenza delle condizioni astrattamente previste dalla legge . Conseguentemente il silenzio assenso espone al rischio di determinare effetti distorsivi nel controllo dell’attività edilizia, nella quale convivono due logiche del tutto contrapposte : una costituita dalla difesa del territorio, dell’ambiente, dell’ordinato sviluppo urbano; l’altra connessa a valori quali la difesa e lo sviluppo dell’occupazione, il sostegno all’economia, la tutela delle posizioni soggettive di affidamento.
Circa dieci anni dopo, è stata approvata la l.r. 4/03, contenente disposizioni programmatiche e finanziarie per l’anno 2003, con cui si è nuovamente intervenuti sulla sanatoria, interferendo in modo alquanto opinabile sull’attività di controllo edilizio del territorio regionale.
Le norme che hanno suscitato delle perplessità sono fondamentalmente due: l’art. 17 e l’art.20.
La seconda disposizione ha ampliato il c.d.”regime delle liberalizzazioni delle opere interne” , già disciplinato dall’art.9 della l.r. 37/85, in modo differente dalla l. 47/85. In particolare, il legislatore regionale ha liberalizzato la costruzione di verande e delle opere precarie, ma facendo leva sia sul concetto di “precarietà”, sia su quello di “veranda” ha escluso una serie di opere dall’obbligo di ottenimento della concessione o dell’autorizzazione che, secondo la legge statale, non sarebbero sfuggite dalla necessità di ottenere un atto ampliativo per essere legittime.
Il comma 4 del predetto articolo, inoltre, stabilisce che:” sono da considerare strutture precarie tutte quelle realizzate in modo tale da essere suscettibili di facile rimozione. Si definiscono verande tutte le chiusure o strutture precarie come sopra realizzate, relative a qualunque superficie esistente su balconi, terrazze e anche tra fabbricati. Sono assimilate alle verande le altre strutture,
aperte almeno da un lato, quali tettoie, pensiline, gazebo ed altre ancora, comunque denominate, la cui chiusura sia realizzata con strutture precarie, semprecché ricadenti su aree private.” . Orbene tale comma non ha fatto altro che incrementare la difficoltà degli operatori del settore (giudici, avvocati, amministratori), poiché definire precaria quella struttura “facilmente rimovibile”, non fa altro che generare un ulteriore quesito: quando una struttura è facilmente rimovibile ? .
Un’altra previsione della l.r. 4/03 ,come sopra indicato, è l’art.17 il cui comma 11 è stato dichiarato incostituzionale perché costituisce un “abuso” del potere d’interpretazione autentica, esercitato irragionevolmente dal legislatore siciliano. L’utilizzo di tale interpretazione, infatti, ha nascosto un tentativo (alquanto sfrontato e non riuscito) di aggirare nuovamente la potestà legislativa statale in materia condonistica, e ciò è emerso anche dalle parole della Corte Costituzionale che ha bacchettato il legislatore regionale con la sentenza 39/06.
Dobbiamo partire dall’art. 5, comma 3, della l.r. 17/94.
Tale disposizione contiene una interpretazione autentica dell’art. 23 l.r.37/85, comma 10, stabilendo che detto comma va interpretato nel senso che segue: “ Il nulla osta dell’autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini della concessione o autorizzazione edilizia in sanatoria, anche quando il vincolo sia stato posto successivamente all’ultimazione dell’opera abusiva.” Con ciò il legislatore regionale dimostrava di voler colpire l’opera abusiva in quanto portatrice di un vero e sostanziale pregiudizio all’ambiente ed al territorio a prescindere dalla formale apposizione del vincolo.
Con la l.r. 4/03 il legislatore regionale siciliano è tornato sui propri passi, attraverso la riformulazione dell’art. 5 della l.r. 17/94 effettuata con l’art. 17, comma 11, della l.r.4/03. Tale disposizione ha stabilito: “Il primo e il secondo capoverso del comma 3 dell’articolo 5 della legge regionale 31 maggio 1994, n. 17 sono così sostituiti:
“1. Il parere dell’autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini della concessione o autorizzazione edilizia in sanatoria, solo nel caso in cui il vincolo sia stato posto antecedentemente alla realizzazione del l’opera abusiva.”
Come sopra indicato la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima tale disposizione che senza giustificazione sul piano della ragionevolezza e con un rinnovato esercizio del potere di interpretazione autentica di una medesima disposizione legislativa regionale, assegnava alla norma un significato addirittura opposto a quello già determinato come autentico in una precedente disposizione legislativa ormai consolidata, omogenea ed incontrastata.
La stessa Corte ha precisato che dalla “strana” attività interpretativa della regione, emergeva, :”..più che la ricerca di una variante di senso compatibile con il tenore letterale del testo interpretato, la volontà di rendere retroattivamente più ampia l’area di applicazione del condono edilizio, oltretutto aggirando in tal modo il problema dei limiti alla derogabilità da parte del legislatore regionale - che pure operi in un sistema di autonomia speciale - del corrispondente principio contenuto nella disposizione statale, quale vivente nella interpretazione giurisprudenziale e quale anche successivamente ribadito, in relazione al più recente condono edilizio straordinario, dall’art. 32 comma 27 d.l. 30 settembre 2003 n. 269, conv., con modificazioni, in l. 24 novembre 2003 n. 326”.
Tra gli ultimi interventi del legislatore regionale in tale settore si colloca la l.r.17/04 il cui art. 46 contiene una disposizione che, nell’introdurre un’ulteriore ipotesi di silenzio assenso per le ipotesi di rilascio di autorizzazione per opere edificate in aree sottoposte a vincolo, si scosta, e non di poco, dalla logica e dai principi posti a tutela dell’ambiente.
La norma citata prevede che le autorizzazioni ad eseguire opere in zone soggette a vincolo paesistico, o su immobili di interesse storico-artistico, sono rilasciate, o negate, dall’amministrazione preposta alla tutela dell’ambiente entro il termine perentorio di 120 . Tale termine può essere interrotto solamente una volta per la richiesta di chiarimenti o integrazioni la cui presentazione fa scattare l’obbligo, entro i successivi 60 giorni, di esprimere un proprio parere. Trascorso il termine perentorio di cui sopra, il citato parere si intende reso in senso favorevole. Se, come accennato in precedenza, la sostituzione di una normale attività amministrativa con il silenzio assenso appare poco opportuna, ancor meno corretta appare l’utilizzazione del silenzio nelle ipotesi in cui l’attività amministrativa sia “particolare”, laddove la particolarità è costituita dal coinvolgimento degli interessi ambientali nel procedimento amministrativo attraverso la necessaria l’acquisizione di un atto da parte di un’amministrazione preposta alla tutela dell’ambiente.
Ricordiamo che esistono una serie di istituti disciplinati dalla l. 241/90, che nel caso di procedimento in cui siano coinvolti interessi cc.dd.sensibili , costituiscono garanzia di rappresentazione dell’interesse ambientale . A titolo di esempio, si pensi all’art. 16, in materia di pareri, che prevede che, nel caso in cui il parere debba essere rilasciato da un’amministrazione preposta alla tutela di interessi sensibili, qual è quello ambientale, l’amministrazione richiedente non può prescinderne come normalmente potrebbe fare.

Ed altre ipotesi simili a queste sono sparse nella l.241/90 ( cfr. artt. 14 bis, comma 3 bis, 14 ter, commi 4 e 5, 14 quater commi 3 e 5, 19 comma 1, 20, comma 4.). Queste norme sottolineano l’importanza dell’interesse ambientale quale plusvalore per l’ordinamento stesso, conseguentemente costituiscono un regime amministrativo dell’ambiente scelto in ossequio al principio di primarietà di tale valore, il quale impone un’esplicita rappresentazione ed un bilanciamento concreto di tutti gli interessi coinvolti nel procedimento con quello ambientale. La primarietà di tale interesse non garantisce certo l’esito finale del bilanciamento nel caso concreto, ma assicura la presenza costante ed irrinunciabile nel procedimento ogniqualvolta possano esservi implicazioni per l’equilibrio ecologico. Conseguentemente, l’utilizzazione del silenzio nelle ipotesi di autorizzazione per le opere sottoposte a vincolo paesistico, viola apertamente il principio di primarietà (sancito più volte dalla Corte Costituzionale a partire dalla sentenza 641/87) e quello di integrazione (sancito anche a livello comunitario :art 6 TCE), e inoltre impedisce che nel procedimento amministrativo possa essere dato il necessario spazio alla valutazione dell’interesse ambientale.
Vorrei chiudere questa mia trattazione costituita da riflessioni e considerazioni certamente non esaustive, con un pensiero che Margherite Yourcenar ha fatto dire all’Imperatore Adriano:” Costruire significa collaborare con la terra, imprimere il segno dell’uomo su un paesaggio che ne resterà modificato per sempre; contribuire inoltre a quella lenta trasformazione che è la vita stessa della città…”. Quindi gli operatori del diritto ed i burocrati (non sempre consapevoli del loro compito), devono impedire che la Tecnosfera continui ad aggredire l’Ecosfera per garantire quello sviluppo sostenibile che appare rispettato solo sulla carta .

AVV. Cristiano Bevilacqua
Dott. Ricerca in Diritto Comunitario e diritto interno
Prof. a contratto di Diritto dell’Ambiente LUMSA
La data di nascita dell’urbanistica moderna si suole far risalire al XVIII secolo, epoca in cui si manifestarono due fenomeni strettamente collegati tra loro: l’avvio del processo di industrializzazione e l’incremento del tasso di crescita della popolazione.
Lo sviluppo industriale portò degli effetti che non vennero percepiti immediatamente, ma solo nel secolo successivo, allorquando le trasformazioni operate dalla rivoluzione industriale divennero evidenti, e si rese necessario effettuare un intervento riparatore.
L’urbanistica moderna nasce appunto con lo scopo di correggere i problemi causati dalla città industriale.
Il dibattito sull’urbanistica, è stato sempre intenso così come le “analisi” e le soluzioni da esso scaturite. Si è affermata, per esempio, per un verso l’esigenza di legare sempre più le scelte territoriali a quelle economiche (attraverso l’introduzione di strumenti urbanistici più sofisticati) e, per altro verso, è stato esaltato il ruolo della pubblica amministrazione nel controllo dell’uso del suolo. In tempi più recenti, poi, il dibattito si è arricchito con i temi dell’ecologia, del patrimonio culturale, del riuso del patrimonio edilizio esistente.
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