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26 ottobre 2009 1 26 /10 /ottobre /2009 12:02
LETTI E SEGNALATI



Allons enfants de la Patrie



Riemergo carico di ottimismo dalla pagina di «Le Monde» dedicata alle reazioni dei lettori al caso Due Sarkozy. Il figlio del Presidente, studente universitario poco più che ventenne, era stato inopinatamente candidato alla guida di un’importante società statale, ma la sollevazione dell’opinione pubblica, capeggiata dagli stessi elettori di Sarkò, ha bloccato il sopruso sul nascere. Nonostante il signor Carlabruni, con uno di quei sofismi in cui eccellono i politici, avesse cercato di ribaltare il senso degli eventi, considerando un’ingiustizia non che il suo pargolo ottenesse una carica per la quale non aveva né titoli né competenze, ma che non potesse concorrervi perché figlio del Capo dello Stato.

La Francia profonda conserva una pancia monarchica ed egualitaria. Ama eleggere un re, ma poi vigila sui suoi comportamenti, fino a ergersi a contrappeso dell’autorità suprema, quando essa tende a ricostituire quell’Ancien Régime di privilegi, nepotismi, caste e prebende che i francesi si scrollano continuamente di dosso da oltre duecento anni. Ci sono riusciti anche stavolta. E in coda a una settimana italiana che alimenta la tentazione di lasciar perdere, tanto tutti i politici rubano, tutti fanno sesso spericolato, tutti raccomandano tutti e nessuno ha il senso dell’istituzione che rappresenta, i lettori di «Le Monde» spediscono un messaggio di speranza. Indignarsi contro il Potere serve ancora. Perché, scrive uno di loro, «essere eletti dal popolo non dà dei diritti, ma dei doveri».



Allons enfants de la Patrie

I vice del vice

Facciamoci riconoscere/2

Grande grande grande


I miserabili

Csm a orologeria

La democrazia delle rockstar

Mai dire Maya

Grazie

Borghesia che fu


 

LA PIETÀ NON È UGUALE PER TUTTI


È FINITA la pietà italiana?

E dov' è la solidarietà di quel popolo che nelle disgrazie si scopre appunto popolo e dà il meglio di sé?

Perché gli italiani non stanno dicendo in coro «siamo tutti messinesi» come dissero «siamo tutti aquilani»?

Forse perché è uno di quei luoghi, questa nostra disgraziata Sicilia, dove la disgrazia è considerata endemica, il prolungamento della normalità. È una di quelle aree umane dove è meglio farsi gli affari propri, non dare quel che si diede ai terremotati dell' Aquila, evitare di farsi coinvolgere come accadde in Abruzzo e prima ancora in Umbria, ad Assisi, in Friuli, a Firenze: a Messina elemosina ed elemosiniere rischiano di fare la stessa fine dell' elemosinato. Certo, le proporzioni delle tragedie sono diverse. Ma senza elencare ciascuno i propri morti e senza mettersi a pesare le lacrime, è sicuro che la disgrazia al Centro e al Nord fa esplodere gli animi e stimola la fraternità e le sottoscrizioni, mentre la disgrazia al Sud, specie a quel Sud del Sud che sono Sicilia e Calabria, provoca rassegnazione e diffidenza, addolorate alzate di spalle, una stanca pietà che mai diventa solidarietà, aiuto e partecipazione. Non c' è persona per bene, non c' è italiano generoso che non pensi che la Sicilia, otre che disgraziata, sia violenta, imprevedibile, inaffidabile, sprecona, confusionaria, corrotta, mafiosa. ensa dunque, l' italiano generoso, che rischia di diventare di fango chi si immerge in questo fango. È la paura del contagio che uccide la pietà. Messina alluvionata somiglia a certe aree delle grandi città del mondo: chi aiuterebbe un malato in un vagone della metropolitana, di notte, nella banlieue di Parigi?

Lo so: è di questo pregiudizio che si nutre il razzismo bestione della Lega. Ma siamo sicuri che sia un pre-giudizio? E se fosse un giudizio?

E se fosse fondato?

E comincio col dire che l' indifferenza per lo strazio di Messina è figlia della Cassa per il Mezzogiorno, delle varie Gioia Tauro, delle baraccopoli del Belice e di Lentini e di quelle della frana di Agrigento. E ancora: dell' imbroglio sistematico ai danni dello Stato dei produttori di arance, delle cattedrali nel deserto, delle raffinerie di Gela, del finanziamento a pioggia dei vini siciliani che, con la loro sovrapproduzione, rischiano già di rivelarsi un altro bluff. E poi ci sono gli insensati sprechi e gli sguaiati privilegi della casta siciliana denunziati sistematicamente dai mosconi escrementizi, mosconi leghisti. E però gli escrementi ci sono e sono veri. Purtroppo. Infine c' è il neosicilianismo dell' attuale presidente della Regione che, coniugando il papismo borbonico con il vittimismo antieuropeista, rilancia la solita voracità dell' euroaccattonaggio. Il neosicilianismo è il leghismo del mendicante. Dall' agricoltura ai trasporti, dalla sanità all' istruzione, la politica siciliana è stata ed è la caccia al tesoro delle finanze derivate. Qui i politici vorrebbero voli gratis per i siciliani, benzina a metà prezzo, "quote" siciliane ovunque si possa bagnare il becco, «bagnarisi ' u pizzu». Ma anche nella pietà si può bagnare il becco. C' è l' eterna parabola di Gibellina a insegnare che soccorrere il Sud può essere inutile e pericoloso. Un grande, rimpianto giornalista e scrittore palermitano, Mario Farinella, andò nel Belice e scrisse che i terremotati piantavano dinanzi all' uscio delle loro baracche non fiori e piante, ma alberi: sapevano di avere tempo. E ancora l' indifferenza per la tragedia di Messina va messa in conto a tutti i meridionalisti di ierie di oggi.

A quelli che esaltano il pensiero meridiano, colti e raffinati professori e scrittori, giornalisti, sociologi ed economisti che hanno celebrato nel sicilianismo un mal di vivere letterario. C' è ancora chi scopre nell' arretratezza del lentissimo Sud il bello e l' antico che resistono alle regole dello sviluppo. I libri dei meridionalisti sono di nuovo pieni di rabbia contro la fretta e la tecnica del Nord. Di nuovo la letteratura esalta chi va piano come i fatiscenti treni siciliani. Sino all' amore per le sieste, all' illusione che esiste un popolo contento di avere in tasca soltanto le mani, ai circhi dell' emergenza che defiscalizzano e finanziano le non-ricostruzioni: squadre speciali e finanziamenti speciali, professionisti dell' anticatastrofe, pozzi neri senza fondo. E mentre il Nord del mondo corre, costruisce e cambia, al contrario finisce sepolto dal fango il popolo che si batte contro le strade, contro i ponti, contro lo sviluppo, contro gli alberghie le funivie, questo popolo che non capisce che la bellezza non è la povertà dell' accattone ma è la ricchezza del produttore e dell' imprenditore moderni. Le concessioni edilizie sui terreni franosi sono tipiche della povertà anche mentale, dell' estemporaneità senza competenze e dell' assessore cieco di Baarìa, che era occhiutissimo solo per le bustarelle. Abbiamo costruito sui greti e sui pendii, sull' argilla e sulla bocca del vulcano. Abbiamo costruito dovunque ma non dove dovevamo costruire. Perché non abbiamo imprenditori, perché non sono imprenditori i nemici giurati dei geologi e degli architetti. Da tempo ho smesso di pensare che il buon giornalismo possa cambiare il mondo. Sono però sicuro che il cattivo giornalismo lo danneggia. Ecco: buon giornalismo è chiederci, noi siciliani recidivi, perché l' Aquila ha commosso gli italiani, mentre Messina, con quelle immagini di fango che seppellisce fango, fa più paura che pena.

- FRANCESCO MERLO

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2009/10/04/la-pieta-non-uguale-per-tutti.html


Sono Lontani i morti di Messina

7 ottobre 2009

FRANCESCO LA LICATA

Sarà l’impressione di un siciliano malpensante ma quest’ultima tragedia, l’annunciata e non scongiurata frana messinese, ci sembra la conferma più evidente del profondo solco che si sta scavando fra le due Italie («il Nord operoso il Sud cialtrone»), complice una politica che - per stare in piedi - molto concede alle discutibili pulsioni umane.

E così, senza che nessuno se ne vergogni, siamo arrivati a cinque giorni dal «fatto» senza neppure sapere quante sono effettivamente le vittime uccise dal fango. I responsabili dell’emergenza, gli stessi dei quali abbiamo avuto modo di ammirare rapidità ed efficienza in occasione del tragico terremoto abruzzese, ogni giorno si fanno schermo dell’ambiguità del termine «dispersi», l’unico che consenta di evitare la semplice ammissione che i morti sono più numerosi di quelli accertati.

Non parliamo, poi, dei soccorsi. Le cronache e i servizi dei telegiornali, seppure attenti a non cedere allo «sfascismo», hanno consegnato al Paese la semplice verità che queste vittime meridionali sono un po’ diverse dalle altre.

I giornali ci hanno detto che i volontari «scavavano con le mani». E perché? Verrebbe da chiedersi. La risposta si può trovarla nelle stesse immagini del dopo tragedia: abiti accatastati alla meglio e distribuiti senza il rispetto di priorità, per il semplice fatto che tutto sembrava affidato all’improvvisazione. «Qualcosa da mangiare, qualche genere di prima necessità è arrivato», ammetteva un ragazzo dal volto esausto e senza nessuna «etichetta» organizzativa. Poi abbiamo appreso che il numero più alto di salvataggi è stato compiuto da un anonimo giovane, incredibilmente terrone, che - vinto dalla fatica - è andato a morire in mezzo a quella tempesta di fango annunciata poche ore prima come «allarme meteo». Pochi ricordano che si chiamava Simone Neri, nessuna autorità lo ha proposto per una medaglia al valore, lo commemorano solo gli abitanti di Facebook. È proprio vero che neppure i morti sono uguali e la Livella è soltanto utopia del grande artista. D’altra parte basta prestare orecchio ad alcuni commenti, adesso che l’emozione è ancora più fredda, per verificare come la sciagura siciliana si appresti ad essere relegata al posto che «merita»: «Sono cose loro, se le risolvessero senza alcuna pretesa di poter usufruire delle risorse del Paese». Esattamente come per le mafie, i mali del Meridione vengono liquidati come fossero soltanto «scelte» dei cittadini di quelle latitudini.
«Perché Messina non scalda i cuori», spiegava ieri il commento di Libero che non aveva in prima altri titoli sull’alluvione in Sicilia. Il Paese ha assistito a quella tragedia, è la spiegazione, pressappoco «nel modo in cui apprende di una catastrofe nel Terzo Mondo». Una «lontananza» motivata dall’ineluttabilità del male in un territorio dove le cose non cambieranno mai. Ma dove porta il ragionamento? Ovviamente all’unico argomento che sembra muovere il mondo: i soldi. Ognuno faccia fronte ai propri guasti, con le proprie risorse, senza che il Nord debba pagare i guasti del Sud. E se i poveri morti di Messina non scaldano i cuori, non c’è da meravigliarsi che tutta la macchina della solidarietà - di solito esaltante, come abbiamo visto in Abruzzo - in Sicilia si sia mossa fuori sincronia.




Italia una società bloccata








IRENE TINAGLI
Cosa spinge le persone a studiare, lavorare e impegnarsi ogni giorno per fare sempre un po’ di più? È la speranza di poter garantire a se stessi e ai propri figli un futuro migliore. Una speranza che si realizza quando in un Paese esiste mobilità sociale. È questa prospettiva di crescita personale che fa muovere un Paese, che stimola le persone a imparare, a produrre e a creare ricchezza, non l’obiettivo della pensione o quello di ridurre il debito pubblico.

Eppure, noi ci preoccupiamo solo delle pensioni e di escamotage contabili per far tornare i conti. Legittimo, anche questo è necessario. Ma abbiamo smesso di preoccuparci di ciò che davvero contribuisce alla costruzione del futuro, di quello che i cittadini sperano, sognano, temono. Abbiamo dismesso le loro paure, bollandole come «psicologiche», irrilevanti. Così facendo abbiamo commesso due gravi errori. Primo, abbiamo dimenticato quello che ormai tutti gli economisti sanno: che sono proprio le percezioni e i fattori psicologici che alla fine determinano le scelte e i comportamenti economici delle persone. Se le persone sono convinte che qualsiasi cosa facciano sarà inutile ai fini della loro crescita personale, smetteranno di investire in se stesse, di impegnarsi nello studio o nel lavoro che fanno.

Secondo, abbiamo rinunciato ad analizzare e capire la realtà in cui vive il Paese. Il sentire delle persone non nasce dal nulla, nasce da esperienze concrete e dalle dinamiche sociali ed economiche. È importante cogliere questi fenomeni con tempismo per adottare politiche e interventi adeguati. Un’analisi approfondita di queste dinamiche mostra che l’Italia è in effetti un Paese bloccato e che il rallentamento della mobilità sociale non è una percezione infondata. È invece legato a problemi reali del nostro sistema economico e sociale che si sono acutizzati nel tempo. Negli ultimi anni in Italia sono aumentate le diseguaglianze, e la povertà si è diffusa tra i giovani e le famiglie con i bambini piccoli, tanto che oggi l’Italia è il Paese europeo con il più alto tasso di bambini a rischio di povertà. Non solo, ma l’Italia è anche uno dei Paesi in cui è più difficile uscire dal disagio. Questi sono tutti elementi che rendono la nostra società sempre più rigida e difficile da «scalare». Una società in cui la famiglia di origine è sempre più determinante nell’accesso alle opportunità e nella probabilità di successo delle nuove generazioni. Abbiamo uno dei tassi di «ereditarietà» della ricchezza più alti d’Europa: i dati sull’elasticità dei redditi tra padri e figli ci dicono che in Italia circa il 50% del differenziale di ricchezza dei genitori si trasmette ai figli, un dato altissimo se confrontato con altri Paesi europei in cui si aggira attorno al 20%.

Cosa significa questo? Significa che i figli dei ricchi tendono a restare ricchi e i figli dei poveri tendono a restare poveri. Non solo, ma è sempre più difficile per i ragazzi nati in famiglie umili avere la possibilità o la forza di riscattarsi. In Italia la probabilità che un giovane con padre non diplomato si laurei è solo del 10%, contro oltre il 40% dell’Inghilterra e il 35% della Francia, per fare un esempio. Questo ci dice che milioni di giovani in Italia stanno gettando la spugna. La situazione è particolarmente allarmante perché non esiste in Italia nessun piano o misura che si proponga di affrontare il problema in modo strategico e sistematico. Ed è proprio questo quello che più di ogni altra cosa ci distingue rispetto ad altri Paesi. Infatti, l’irrigidimento della società è un problema che non riguarda solo noi ma che, in vario grado e misura, caratterizza anche altri Paesi industrializzati come Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti. Tuttavia in questi Paesi esiste una consapevolezza maggiore verso questi temi, che ha portato all’adozione di misure strutturali volte a recuperare dinamismo e restituire opportunità a ceti sempre più esclusi. Una strategia che in Italia manca completamente.
Ma quali sono le politiche attivabili per riattivare la mobilità sociale di un Paese? Da un lato politiche sociali efficaci per garantire a cittadini di ogni provenienza sociale pari accesso alle opportunità di crescita, dall’altro un sistema economico in grado di riconoscere i meriti e dare modo a chi è bravo di far carriera. I Paesi che stanno cercando di recuperare mobilità sociale intervengono in queste direzioni, soprattutto in quella su cui sono più carenti. Per esempio Inghilterra e Stati Uniti, che tradizionalmente hanno privilegiato i meccanismi meritocratici di mercato, stanno investendo pesantemente in politiche sociali per restituire ai ceti più deboli opportunità di crescere e migliorarsi. L’Italia invece è debole su entrambi i fronti. Ha un sistema economico ancora molto ingessato da protezioni di vario genere, e una spesa sociale dominata per il 60% dalle pensioni che non lascia spazio per lo sviluppo dei bambini, per i giovani, e per tutti quei servizi che aiutano le giovani famiglie a conciliare lavoro e carriera e a crescere. Possiamo continuare ad ignorare il problema e ad evitare le necessarie riforme ed investimenti, ma dobbiamo allora essere pronti a subirne le conseguenze. Conseguenze che sono visibili già oggi, ma che saranno ancora più gravi tra qualche anno. Perché se i dieci milioni di bambini e ragazzi che ci sono oggi in Italia non avranno l’opportunità o la motivazione di studiare, impegnarsi e migliorarsi, non riusciranno ad avere le competenze necessarie per competere su un mercato del lavoro sempre più agguerrito e globalizzato. E se non saranno competitivi loro, non lo sarà nemmeno l’Italia.

Irene Tinagli, docente di Economia delle Imprese presso l’Università di Madrid, illustrerà oggi alle 15,30 il primo rapporto sulla mobilità sociale alla presentazione pubblica della fondazione «Italia Futura», che si svolgerà a Palazzo Colonna, a Roma.









IL LUTTO SCORREVOLE

La rappresentazione del dolore più intenso ha mostrato due Italie diverse: quella ufficiale ha riempito le chiese, l'altra era distratta dalla sua quotidianità

Gli anziani ricordano che durante i funerali del Grande Torino l'Italia intera si arrese al dolore. Saracinesche abbassate e lutto al braccio, da Bolzano a Palermo. Un senso di sgomento collettivo, immortalato in pagine stupende da Indro Montanelli, che raccontò una partita di calcio giocata in piazza San Marco dai ragazzini veneziani: si passavano il pallone evocando i nomi dei caduti. Il lutto allora era il Lutto.

Scavava nelle persone e restava aggrappato per sempre ai fili della memoria. Ma ancora negli anni Settanta la morte di un Papa o una strage terrorista provocavano le stesse reazioni solenni. La tv di Stato dettava la linea, abolendo di colpo i programmi di svago per trasmettere musica classica, mentre le sale da ballo spegnevano le luci e il silenzio regnava assoluto nelle piazze e dentro gli stadi. Era tale la convinzione che il lutto dovesse avere quel genere di struttura tragica che il giorno in cui a Dallas venne assassinato Kennedy i giornali italiani si rifiutarono di pubblicare gli articoli dei loro inviati, che testimoniavano invece il disinteresse dell’America profonda per lo storico evento, surclassato dal campionato di baseball.

Poi il lutto ha incominciato a cambiare anche qui. È successo quando le immagini hanno preso il posto delle parole e le emozioni quello dei sentimenti. Le immagini e le emozioni sono potenti, ma brevi e superficiali. Come certi temporali estivi che sconquassano il suolo ed evaporano in fretta, senza penetrare in profondità e lasciando la terra più arida e assetata di prima. Nessun evento recente, a parte le Due Torri, è apparso abbastanza memorabile da coinvolgere intensamente una comunità intera. Nessun evento, nemmeno la morte di sei soldati a Kabul. La rappresentazione del dolore che è andata in scena ieri ci ha mostrato due Italie. Quella ufficiale, raccolta lungo il corteo delle bare, nella basilica di san Paolo e nelle tante chiese italiane, come la Gran Madre di Torino, che alla stessa ora si sono riempite di militari. E l’Italia dei telespettatori, la nostra Italia, che ha continuato a lavorare e vivere come sempre. Dove le uniche serrande abbassate erano quelle dei negozi chiusi per turno e molte scuole non avevano neppure la bandiera a mezz’asta. Tutti abbiamo dato un’occhiata ai telegiornali, alla ricerca di un pretesto per commuoverci, purché fosse un pretesto in grado di farci sentire meno bellicosi e più buoni. Lo abbiamo trovato in due bambini. Uno di due anni, l’innocenza assoluta, che indica la bara del papà quasi fosse un gioco. E l’altro di sette, l’infanzia resa adulta dal dolore, che corre sotto l’altare della chiesa per accarezzare il legno che racchiude le spoglie di suo padre. Ci siamo commossi, innaffiando il fazzoletto come il nostro premier in prima fila: stavolta ci ha rappresentati proprio tutti. Abbiamo pianto, ci siamo soffiati il naso. Poi abbiamo chiesto in cucina cosa c’era per secondo. È normale, funziona così ed è persino sciocco scandalizzarsi di questa incapacità cronica di stare dentro le situazioni per più di un attimo. La stessa incapacità che portava la conduttrice di un telegiornale a decantare con occhio umido gli eroi di Kabul e, girato il foglietto, ad assumere un'espressione da maliarda per svelarci l’ultimo gossip post mortem su Lady Diana e l'ex presidente Valéry Giscard d’Estaing.

Il simbolo plastico del cambiamento rimane l’uso dell’applauso. Fu inventato per sottolineare un'approvazione, mentre oggi si direbbe che la sua funzione principale consista nel coprire i baratri aperti dal silenzio, questa brutta bestia che ci induce a pensare, quindi fa paura e va rimossa come la morte. Le persone che fuori dalla basilica applaudivano le bare erano convinte in buona fede di esprimere solidarietà. In realtà stavano scacciando il dolore che passava dinanzi ai loro occhi, temendone il contagio. Ci avete fatto caso che i familiari delle vittime, gli unici a soffrire davvero, non applaudono mai?

Eppure sarebbe stucchevole rimpiangere il bel lutto che fu. Ogni epoca ha le sue rappresentazioni. La nostra ha espulso il sacro e con esso i riti comunitari che gli davano un’aura di credibilità. Si pattina leggeri sulla superficie, affastellando emozioni e mescolando ricordi: fra sei mesi non sapremo più se la tragedia di Kabul è accaduta prima o dopo quella di Nassiriya. D’altronde tutti si rammentano in modo vivido il Vietnam, pure chi non c’era, mentre delle due guerre irachene resta una macedonia di sensazioni in qualche angolo della testa. Proviamo di tutto, ma dimentichiamo anche tutto. Persino la nostra bandiera. Per onorare i caduti, il Pd del Lazio ha stampato un manifesto nero con striscia rossa, bianca e verde: i colori dell'Ungheria.

22.9.2009

Massimo Gramellini

http://www.paginainizio.com/link.php?url=webpin.lastampa.it
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26 ottobre 2009 1 26 /10 /ottobre /2009 11:12
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